Il crollo prima della fioritura

Giulia Ganugi
5 min readApr 30, 2021

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O di come la mia salute mentale sia stata minata dall’ambiente accademico

Photo by Jan Tinneberg on Unsplash

Il mio ingresso in questo spazio comincia con un passo verso l’interno, invece che verso l’esterno. Come quando stai per uscire di casa, hai già aperto la porta e sei sull’uscio, ma poi torni dentro per controllare di avere preso tutto. Il più delle volte è così, quindi dopo il controllo ti avvii verso la porta senza più esitazione, la chiudi alle tue spalle e ti incammini verso il mondo.

Così, prima di iniziare a raccontarvi il mio viaggio sociologico nel mondo, ho bisogno di condividere con voi qualcosa che tengo dentro, nei pensieri e nel cuore, ma che probabilmente è il punto da cui è partito, o ripartito, tutto.

Mi riferisco al crollo mentale e fisico che ho avuto nella primavera del 2018. Nessuno lo ha mai definito un burn out, quindi non so dirvi se davvero lo fosse. So solo che per me ha significato toccare il fondo di una condizione che non potevo più sopportare. Una condizione causata da stress, stanchezza, altissima mobilità, continue messe in dubbio da parte di altri e anche da parte di me stessa, e solitudine.

Stavo facendo il mio dottorato in quel periodo, un doppio dottorato condiviso tra l’Università di Bologna, dove sono cresciuta, e l’Università KU Leuven, in Belgio, dove sono approdata per il periodo di ricerca all’estero, inizialmente di sei mesi ma poi durato 15 mesi. Ora non sto a descrivere tutto il carico emotivo e la quantità di risorse (mentali, fisiche, di tempo, economiche) che questo ha comportato, ma provo a raccontarvi le cause che mi hanno fatto arrivare al crollo.

Sui disturbi psicologici e psichici provocati dalle condizioni lavorative vissute negli ambienti universitari, articoli e studi si stanno moltiplicando. Qui su Medium trovate, tra gli altri, gli articoli di Narraction e uno in particolare riporta alcuni studi fatti dal 2014 in poi. Io vi segnalo anche questo articolo, che però non è open access: ne trovate alcuni dati riassunti nel mio carosello su Instagram “salute mentale — in accademia e non solo”. Il web è pieno di articoli, sia giornalistici sia scientifici: è sufficiente digitare salute mentale e accademia.

Ma non è neanche mia intenzione darvi dei dati oggi, li potete trovare su tutti gli articoli citati e in tanti altri. Io voglio trasmettervi le sensazioni e i pensieri che ho vissuto, perché questi non sono quantificabili nei dati e l’unico modo che ho per comunicarli è qualificarli con le parole.

Riassumo in tre punti le condizioni che mi hanno messo duramente alla prova:

La solitudine: il dottorato è personale, il progetto — seppure concordato con professori e/o altri ricercatori — è il tuo e sei l’unica persona responsabile del suo andamento. Inizi il ciclo di dottorato con altri colleghi, ma poi ognuno segue il suo percorso. Nel mio caso, ho anche vissuto la sensazione costante che il confronto e lo scambio di riflessioni, problemi ed esperienze non fosse apprezzato né da altri dottorandi né da superiori in diverse cariche. Quindi fondamentalmente, ho affrontato tutto da sola.

La sindrome dell’impostore: l’ingresso ai cicli di dottorato è limitato a pochissime persone e, una volta ottenuto il posto, chiunque faccia già parte dell’ambiente ti ricorda quanto elitario sia. Questo ha contribuito notevolmente a farmi sentire una privilegiata, soprattutto per il fatto che potessi svolgere un lavoro (quello di ricerca) che mi appassiona e per il quale venivo anche pagata, a fronte di tantissimi giovani senza lavoro o non retribuiti. Così ho cercato di lamentarmi il meno possibile e mi sono sentita sempre in colpa le poche volte che ho avuto il bisogno di sfogarmi, sempre scusandomi per quello che stavo ammettendo.

Sovraccarico lavorativo: i dottorandi sono l’ultimo gradino della scala gerarchica universitaria e vengono fin da subito “testati” con una mole di lavoro insopportabile da chiunque, data dalla somma di portare avanti il proprio progetto, aiutare il docente di riferimento con ore seminariali ed esami all’interno dei corsi, partecipare alle lezioni previste dal ciclo dottorale, contribuire, per esempio, all’organizzazione di summer school, e altre mansioni variabili. Tutte mansioni che, per quanto mi riguarda, mi sono sempre sentita proporre (da chiunque fosse il soggetto proponente) solo con una possibilità apparente di dire “no” a qualcuna di esse. In realtà, sentivo dato per scontato il mio accettare tutto, perché sarei stata un’ingrata altrimenti a non cogliere le opportunità che mi si davano. E dovevo anche ringraziare.

Non oso immaginare come queste situazioni siano peggiorate nell’ultimo anno, con l’evolversi della pandemia da Covid19. L’isolamento è sicuramente aumentato per via del lavoro da casa. Così come sono aumentate le ore effettivamente lavorate e, ancora peggio, le ore in cui viene data per scontata la disponibilità a lavorare. Del tipo: “Dobbiamo stare a casa, cosa vuoi fare a parte lavorare?”

Non concludo questo racconto con una nota positiva, il momento di raccontarvi come mi sono ripresa dal crollo e cosa lo ha seguito arriverà. Ora vorrei che riflettessimo sugli aspetti negativi, sulle cause e le condizioni che portano a cattivi stati di salute mentale, anche se non è mai piacevole farlo. Dopo averci riflettuto, vorrei che ognuno di noi potesse sentirsi un pochino più libero di quanto si sentiva prima di parlarne, di lamentarsi, di fare presente quali condizioni non sopporta, quali condizioni lo fanno stare male.

Parlandone (e continuando a raccogliere dati a riguardo, ma questo lo lascio fare a chi è competente in questo ambito) possiamo raggiungere due obiettivi: 1) non far sentire solo chi vive questa situazione o l’ha vissuta e creare una rete di supporto; 2) sensibilizzare la società dell’esistenza di questo problema.

Così facendo, sarà sempre più evidente che stati di cattiva salute mentale in accademia non sono una debolezza dell’individuo, che dobbiamo preoccuparci di risolvere personalmente, curandoci o abbandonando l’ambiente. Questo è un problema collettivo e societario e come tale richiede una strategia politica che riformi il sistema, soprattutto quello di valutazione della carriera accademica, che riconosca l’importanza della ricerca e la finanzi, e che spinga rettori, università e professori ad apportare un cambiamento concreto nelle modalità lavorative interne.

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Giulia Ganugi
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Written by Giulia Ganugi

Sociologa e ricercatrice. Mi occupo di innovazione sociale, governance, modelli di welfare e cittadinanza. Qui scrivo del mio viaggio nella società.

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